Pablo Picasso ha detto : “Quando non ho più blu metto rosso” , per Keith Haring “Il rosso è uno dei colori più forti. è come il sangue, colpisce l'occhio. Credo che sia per questo che i semafori sono rossi così come i segnali di stop. Uso sempre il rosso nelle mie opere. Marco Cingolani dipinge con coltelli ,forchette e chiodi; oppure con pennelli duri Come chiodi. Dice che sono un trucco per ottenere superfici dense, corrugate, tempestose, ma fatte con poca materia ; con un soffio di materia. A volte mette colori a vanvera, uno vicino all'altro, quindi li ricopre di nero, che poi gratta con strumenti acuminati, proprio come si faceva da bambini con pastelli cerati. è un trucco semplice, ma efficace per ottenere sfondi intensi, elettrici. Un altro piccolo trucco è lasciare seccare il colore sulla tavolozza, in modo che aggiungendo un po' di bianco e usando un pennello duro, può strofinarlo sulla tela, ottenendo un effetto polvere. L’ultimo trucco sono i suoi bianchi d'autore: quando il colore si è assestato basta dare piccoli colpi di bianco puro tra i vari toni, perché tutto risplenda. I quadri Rossi li prepara con un economico marrone di fondo che poi vengono grattati con delle grosse spazzole di ferro, in modo da ottenere dei anche profondi. Una volta asciutto, da il rosso questa volta da barattoli costosissimi.
Il rosso è uno dei tre colori primari additivi, e chi dipinge, lo conosce bene, il rosso. In fotografia è diverso. Chi ha confidenza solo con la compatta digitale, il “rosso” ricorda solo l'opzione effetto “occhi rossi”. Qualche fotoamatore evoluto pensa all'infrarosso, ma è un'altra cosa. Il fotografo che tiene conto della quadricromia, pensa al magenta; per chi è “del mestiere”, un rosso pieno è Magenta-cento, giallo-cento. Un filtro rosso può essere utilizzato da chi realizza foto in bianco e nero, in quanto schiarisce le tonalità tendente al rosso e, viceversa, scurisce quelli tendenti al blu. Di conseguenza potrà rendere più contrastato un cielo limpido è nuvoloso, ad attenuare i contrasti della pelle; bell'effetto, ma continuo a pensare che usare un filtro rosso per ottenere neri più profondi pare uno spreco.
Meglio sapere quel che si vuole ottenere: “Voglio scattare delle foto sul Lago d'Orta rifacendo mi alle storie di paura del Lago. Foto con pochi bianchi e molti neri” mi ha detto una volta Paolo Sacchi. E se ha Massimo Vitali si chiede “Qual è il primo colore a cui pensi per il tuo prossimo lavoro?” risponde “al Bianco. A quanto bianco posso mettere in una foto”. Erwin Olaf racconta “Royal Bloth è stato il mio debutto nella fotografia internazionale, quando la gente ha cominciato ad accorgersi di me. è la prima volta che ho usato Bianco su bianco, dieci anni prima ho usato nero sue e bianco su bianco: era decisamente intrigante. Sonofoto, sulla bellezza, la bellezza della gioventù”. Che Chiodetti ama il bianco e nero, lo so, e so anche che lui sa come e quando usarlo, il bianco e nero.
Con le sue Leica fa quel che vuole, come Nuvolari al volante. Col colore ci va piano, consapevolmente. Perché conosce le sfumature, i riflessi, i toni tenui. Il suo animo ha però una latitudine di posa a noi sconosciuta, e l'ho capito vedendo questi rossi. In questi ritratti non c'è un “sun kissed”, quel velo di polvere ambrata che, nel trucco, scalda la carnagione. La modella non ha un ritocco al colorito con la terra solare. O con un filtro ambrato. La modella è pallida, bianca. Tutto il resto è rosso; e per questo rosso prezioso ho cercato i pigmenti migliori, da abbinare le carte migliori. Perché questo rosso d'autore meritava di essere messo in mostra.
testo di Giuseppe Biselli
Cosa spinge un fotografo sin qui pudico e introverso, impegnato a talvolta malinconico A rifarsi il trucco, portando davanti al suo obiettivo una storia di performance teatralizzata che finora non aveva trovato spazio nel suo lavoro? A cambiare il passo del suo guardare, a mutare quasi l'intera percezione che chi conosce il suo lavoro ha di lui? E allo stesso modo: Cosa spinge ad un uguale coinvolgimento un'artista normalmente è ugualmente avulso da troppa enfasi in merito alla sua pittura? Sarà banale dirlo, ma la molla può essere davvero una forma precisa di contiguità con il lavoro, l'uno dell'altro. Una sorta di promessa con se stesso e con l'altro, inevasa da tempo e ora soddisfatta con un lavoro che di Mario Chiodetti che esibisce il suo lato più nascosto, forse anche più vero, chissà, certamente necessario e del rapporto che lo lega a Luca lischetti quasi un risarcimento, più ancora un consolidamento di una antica amicizia, di quelle che sostengono nei momenti anche più difficili. Allora come fare per due direttrici espressive così (apparentemente) distanti come quelle intraprese dal feticista, scrittore, giornalista, fotografo e dal pittore-scultore? Venirsi incontro su un terreno comune, violando l'opera del uno, appropriandosi in modo lievemente giocose, cercando di entrarvi profanandone la fissità ieratica e rendendolo complice. E dall'altra parte stimolando il fotografo a tirar fuori quella Verve che Chiodetti mette, ad esempio, con molta più nonchalance lievita in altre parti della sua prolifica e poliedrica attività.
Complice nel backstage nei momenti iniziali del lavoro, Lischetti predispone la donna nei dettagli. Deve essere rossa come le sue enigmatiche creature addossate alle superfici dipinte. Deve avere il volto bianco, che impressioni, deve avere un trucco, più vicino possibile a ricalcare le silhouettes delle sculture, umane ma rattrappite. E Lischetti si presta, la sua anima da pittore non si tira indietro di fronte al corpo umano, come fosse un Yves Klein ma a me non metafisico è più ruspante ho un Piero Manzoni che non ha le fisime dell'avanguardia. Si diverte, insomma, a trattare con mano quanto normalmente si tratta di sega elettrica. Chiodetti intanto scatta e gira intorno alla scena, come il cacciatore. Sa che la creatura deve acquistare la sua vitalità in relazione all'opera, all'ambiente, deve prepararsi al suo ruolo con cui è chiamata e legata: La statua vivente che Prova a dare un senso altro a quelle creature immobili e impassibili. Lei impassibile non è. Il fotografo allora le chiede, non solo di sostituirsi ai manichini appoggiati, ma di entrare in quel dipinto, di forzarlo, di erotizzarlo se possibile. Lo fa, discretamente e anche no. Nei quadri affollati, la luce poi elaborazione del digitale fanno del suo corpo ancora intonso una esatta continuazione della scena dipinta. Collocata davanti alle Rossi e pareti dei quadri per recenti la modella fa di più: li Domina, è lei che comanda, in totale naturalezza. Sembra davvero una profanazione. Per un artista come Lischetti, normalmente geloso delle sue opere, normalmente pudico quando si tratta di andare a toccare con la parte consistente del suo io nascosto, celato dietro ai suoi rossi, all'angoscia che quelle superfici rimandano e certificano a quel mondo apocaliptico, a quella Babele di disastri e distanze inconciliabili in accorciabili che sono i suoi quadri. Eppure lascia fare, per una volta lascia fare all'amico quella sorta di balletto, di danza rituale con la macchina fotografica attorno e dentro la sua pittura questa donna Angelo demonio un po' Marilyn Manson un po' Valkiria. Un po' pin-up.
Di questo programma di intenti, che non è avanguardistico, ma liberatorie probabilmente sì, Chiodetti dispone una corposa documentazione di cui la mostra non offre che una piccola parte. E lo fa in chiave monumentale, con immagini di grande formato, Con evidenti ripensamenti e ritocchi, rielaborazioni. E anche questa è una sorpresa, volendo; un nuovo, meno caduto e meno riservato modo di presentarsi da parte del fotografo, schivo e modesto, di solito piuttosto enfatico. Tanta è l’urgenza. L’aspetto che più sostiene colpisce di questa prova forse sta proprio in questo prendere lasciare ciascuno dei due qualcosa. Privarsi della propria gelosa misura abituale, l'uno per l'altro, acquisire l'uno dall'altro un raggio d'azione ulteriore, un altro punto di vista una maggiore complicità. Una mutualità che forse solo un ragionamento fatto per immagini con l'occhio della macchina fotografica che sa essere discreto e indiscreto, rispettoso e insinuante può conferire. Come una medium la modella si è prestata con sovrana indifferenza.
testo di Riccardo Prina
Magda c'è voluto poco per convincerla. Aveva già fatto body painting a Roma con un fotografo famoso, per lei spogliarsi non è un problema. Affare fatto andiamo da Luca un giorno luminoso D'Aprile, fa caldo e Magda canticchia in macchina, sembriamo quasi fidanzati in gita.
Ma non è così, ci aspetta un pomeriggio di lavoro colorati, in mezzo alle tette gigantesche di Lischetti, ai suoi uomini-muro rossi come un'anguria, ai personaggi lunari e grotteschi dei suoi teatrini. Dobbiamo trasformare la modella in un essere quasi soprannaturale, come quelli che Luca partorisce ogni tanto nel suo studio solaio, con la radio che va a pattina e il sole è arrivato a fargli compagnia.
La fotografia a questo punto diventa soltanto un testimone oculare del nostro divertimento, il mezzo per prendere appunti di memoria in quella stanza dove ogni cosa tende al rosso, un po' anche la nostra faccia, mia e di Luca, quando Magda incomincia a spogliarsi. Una volta nuda si avvicina la terra sul lato lungo dello studio, un teatrino in via di allestimento, con i personaggi, Uomini e Donne, condannati a un'eterna lotta con il tempo il denaro, specchio del nostro quotidiano ancor più sconvolgente se è dipinta.
Scatto quasi per gioco, mentre modella e pittore ridono come matti. La tela diventa un lenzuolo per Magda che si gira e rigira: alla fine si mette di profilo ed “entra” nel quadro. è fatta, l'immagine digitale lo conferma, ormai è un personaggio Lischettiano, fatto e finito.
Ora si tratta di dipingere il suo corpo e Luca tira fuori i colori atossici, rosso bianco e blu, incomincia dalle spalle, poi seno Il ventre, le cosce polpacci. La ragazza a strisce rosse è impressionante, e manca ancora il viso. Lì ci vuole un lavoro di fine il pittore con un sottile pennello e “trucca” Magda in bianco e nero, trasformandola in un mutante, un clone di Marilyn Manson che si aggira come un lupo mannaro a montonate di Mornago.
Luca da gli ultimi ritocchi sollecitando il bel corpo della modella e poi via, rosso su rosso, l'anima vagante trova il suo riposo nella tela, appoggiata di schiena oppure con il petto, seduta su uno sgabello zebrato con tra le cosce un “pokemon” lischettiano. Poco a poco il sesso scompare la donna si trasforma in scultura, in fantasma, in idea. Le immagini si confondono, diventano oniriche, nel mirino della Leica mi appare quasi risultato di un trip di acido, il viso di Magda è una perfetta maschera per gli incubi Quentin Tarantino.
Mentre la polacca è in doccia, a lavare via tutto quel sangue o tinta (è ancora da decidere) Luca ed io rivediamo il lavoro a Monica e ci convinciamo di Come, a volte, i viaggi della mente possono trovare Approdo In un rettangolo colorato, capace di mostrarci i nostri pensieri allo specchio, prendendosi gioco della nostra serietà. Magda ritorna e osserva, ride, si ritrova parte di una storia e la cosa la diverte, sarebbe pronta a ricominciare da capo.
Noi tre, anime in rosso, ci siamo riuniti intorno a un colore, festeggiando l'ho in fondo come si fa con un amico, complimentando c e scherzando ci sopra, interrogando lo allungo sui suoi rapporti con la luce e le ombre, chiedendogli se alla fine un po' non gli dispiaccia intimorire la gente, con una livrea così formidabile.
Torniamo che è sera, Magda ancora canticchia. Sul collo, all'attaccatura dei capelli, è rimasto un baffo scarlatto che mi piacerebbe levare con un bacio.
testo di Mario Chiodetti