Nell’arte più recente di Lischetti avanza una concezione dura e ferma dell’uomo che non concede attenuanti né ripensamenti. L’artista ha saputo creare un universo simbolico di rara intensità attorno ad alcune “figure” che restano invarianti. Attraverso una tecnica che miscela la cultura con la pittura. Lischetti pone dinanzi a delle superfici e dei piani verticali, dei personaggi che in parte eccedono dalla superficie stessa, in parte vi sprofondano. Queste “persone”, che non hanno nessuna caratteristica psicologica apparente, possiedono un immoto movimento che dà un senso forte, ma indeterminato alla progressività del loro appartenere alla superficie o allo spazio.
Non sappiamo se la parte immersa, oltre la soglia immaginaria della superficie/sipario, abbia un’attrazione volontaria o se invece si tratta di una forza attrattiva che non concede opposizioni. In ogni caso si ha la sensazione che questi personaggi indubbiamente antropoidi siano la causa efficiente del lavoro, che le simbologie che compaiono sotto forma di legni colorati, di cubi o di sfere, siano come i sogni colorati di chi ha smesso di sognare da un po’ di tempo. La stessa predominanza di colori forti, il rosso su tutti declinato nelle sue varie tonalità, accentua il senso di spaesamento e d’angoscia. Ma la lettura può risultare anche rovesciata e allora la base bidimensionale può essere vista in senso dinamico, e la conferma del colore giunge puntuale, come un magma originario da cui procede la creazione. E quale creazione può essere possibile se non quella di questi esseri che faticosamente cercano di uscire dall’Origine per avventurarsi nei pericoli del Mondo?
Probabilmente si accentua in questa lettura l’elemento positivo della liberazione dell’umanità dal caos, ma si tratta in ogni caso di una nascita faticosa, di uno strappo dalla Madre terra, di un evolversi soffrendo che marca una separazione necessaria. Quindi due prospettive si fronteggiano, ma il dato essenziale consiste in questa giustapposizione, artisticamente felice, tra la tridimensionalità della scultura e la parete dipinta, che assume i tratti di un contrappunto visivo e drammatico, che non ammette scioglimento. L’enigma dell’indecidibilità è caratteristica di questi lavori durissimi e affermativi come negazioni assolute.
Ma può risultare anche molto interessante guardare a questi lavori come ad una sorta di rito di passaggio.
La superficie bidimensionale forse è una porta, un accesso ad un mondo altro che si dischiude alla figura che si avvicina con trepidazione e anche un certo sospetto. Perché è bene affermare che Luca Lischetti non mette in scena drammi violenti, piuttosto tutto si appoggia su di un piano emozionale che è greve d’esigenze esistenziali. La sua è una metafisica della tragedia in cui le cose e i fatti sono dati dall’interno di una logica dell’assurdo. Indubbiamente le possibilità di interpretazione non si eludono proprio perché è stato l’artista che ha saputo lasciare un’indeterminatezza sugli esiti della vicenda che trova icastica rappresentazione. Che cosa accade realmente non è dato di stabilirlo con esattezza, ma certamente l’artista ha voluto creare un’atmosfera di dura violenza sospesa nel tempo.
Da questo punto di vista la simbologia non è invadente, anzi è la prova che una costellazione di segni è pronta ad accogliere la creatura che vedrà la luce dietro o attraverso la superficie. Però gli oggetti inseriti non soltanto nella trama del “muro” rosso che argina/origina l’uomo prometeico di cui è epitome, hanno forse il senso di un corredo. L’uomo senza gli oggetti non esiste, la sua nudità, quella che Lischetti sottolinea, è stato e condizione, ma non può astrarsi dal farsi portatore di simboli. E questi sono proprio l’oggettualità che argina la naturalità del nascere. Il grido dell’esistenza contro la rossa parete che frena lo stesso urlo a raggiungere la volta celeste, è comunque un tentativo di ristabilire un ordine che non è forse mai esistito se non nella speranza dell’uomo. Una condanna ad un massacro ripetuto ad una sorta di mito di Prometeo in cui è l’uomo stesso a scontrarsi con la realtà, con la parete, con la superficie infinita come i problemi che rappresenta.
Luca Lischetti impegna un’energia straordinaria e creare uno stato di tensione significa profondi sono lì che testimoniano la sofferenza dell’uomo, la sua ricerca inutile di una felicità che si nasconde continuamente, che sfugge allo sguardo nella sua consistenza di sogno, nella sua apparenza e allegoria come un Atalanta fugens. E si comprende come un pittore colto come l’artista varesino si sia affidato alla scultura per dare corpo al corpo, cioè per evidenziare una tautologia che accentua con evidenza ogni piega drammatica dei lavori. Non a caso qualcuno ricorre al disegno, l’atmosfera dura dei quadri scultura si rasserena, anche se non perde delle tonalità di un silenzioso e rosso massacro.
Invece la scultura non solo rende il corpo tangibile, ma nello stesso tempo prolunga la spazialità e crea un’importante esito che si espande nel tempo della visione. Diventa un’esigenza di realismo, un’aspirazione anche ad un coinvolgimento diretto dello spettatore che attraverso la semplice bidimensionalità non avrebbe potuto mai provocare l’attrazione-repulsa verso il dramma che si sta consumando. La reiterazione delle posture, la stessa improbabilità del volto, fanno dell’uomo di Lischetti un simbolo tra i simboli. L’identità negata si ribalta nella prospettiva di un’umanità ce cerca riscatto e trova umiliazione, paura. Il rosso incendia la superficie e determina quella magmatica occasione di palingenesi a cui probabilmente aspirano gli uomini-simbolo dell’artista.
Senza volto ma non un destino certo. Questi personaggi aleggiano nel caso del primordio dell’origine ma non si emancipano mai dalla materia, restano sempre sospesi in un dramma di non esistenza. Sangue e materia condizionano una partecipazione emotiva che non si rivela mai indifferente. Lischetti pone con coraggio una condizione immobile d’equilibrio, una sospensione costruita nel vuoto dell’angoscia e della disperazione. L’umanità è colta nell’eternità della violenza del cosmo, nel dramma continuo di un impossibile venire alla luce.
La cognizione del dolore sta in questa impossibilità, in un’aspirazione respinta, in un muro invalicabile non solo allo sguardo, ma anche all’invocazione estrema di rinascita.
Valerio Dehò